mercoledì 4 gennaio 2012

Sulla chiusura dei piccoli negozi


I consumi, secondo i dati della Confesercenti, vanno peggio delle previsioni e la ripresa tarda. Il risultato è un forte restringimento del numero di esercizi in attività. Il negoziante che fallisce, se può, si ricicla nelle vendite a domicilio o nel commercio ambulante, entrambi fenomeni in crescita - In quello che per dodici anni è stato il negozio di informatica di Giulio Credazzi, a Roma, non c'è solo una saracinesca chiusa, ce ne sono tre. Perché era un negozio grande, e con molti dipendenti. A un certo punto, però, le cose non sono andate più bene: "Prima è arrivato il centro commerciale, che ha avuto un impatto devastante sulla nostra attività, e così abbiamo cominciato a perdere il 10% l'anno. A un certo punto si è aggiunta la crisi: le perdite si sono sommate, siamo passati dal 30 al 40 al 50%. Per giunta la proprietaria ci ha chiesto un aumento, e allora ho deciso di chiudere". Adesso Credazzi si occupa di servizi informatici, a domicilio: ripara computer, fornisce software, pezzi di ricambio. Il suo negozio è rimasto chiuso: a distanza di due anni, non lo vuole nessuno. I clienti però non mancano e, non essendoci più le spese del negozio, i margini di guadagno sono tornati accettabili.

Anche Roberto Carletti, romano, dopo il fallimento del suo negozio ha cambiato filosofia: "Quando avevo il negozio, aspettavo i clienti. Adesso vado da loro". Carletti era approdato al commercio dopo aver fatto altri lavori: la sua era un'aspirazione coltivata da tanto tempo. Gli è andata male: "Vendevo articoli per la casa, ma in negozio c'era sempre poca gente, poco movimento, poco incasso; l'affitto correva, la merce andava riacquistata, perché era un'attività nella quale bisognava avere sempre tutto: il gioco non valeva la candela". Allora ha chiuso, e a quel punto ha colto al volo un'opportunità offerta dalla Vorwerk Folletto: si è reinventato venditore a domicilio, e adesso, dopo qualche anno, è capovendita, ha alle sue dipendenze sei venditori, ed è entusiasta del suo lavoro.

Invece Patrizia Lattuada è passata alle vendite a domicilio più per motivi di famiglia che di tipo economico: "Ho lavorato per vent'anni in agenzie di viaggio tradizionali, però con il secondo figlio è diventato tutto più difficile, perché abito in provincia di Cremona e dovevo andare ogni giorno a Milano. Allora ho risposto a un annuncio di CartOrange, e ho cambiato modo di lavorare. Vendere pacchetti viaggio a domicilio mi dà la possibilità di stare di più con i miei figli, non ho orari fissi, e poi è più appagante, perché dai al cliente la tua collaborazione ben al di là degli orari di agenzia: anche il sabato, la domenica, dopo cena. E ho molto più tempo per la formazione".

Giulio, Roberto e Patrizia non sono i soli a essere passati dal negozio alle vendite a domicilio. Infatti se i negozi chiudono, spesso per non riaprire più, e i fallimenti aumentano, le vendite a domicilio crescono dal 2006 con una media del 3% all'anno, e hanno superato indenni i tre anni della crisi nella quale invece si sono persi 25mila negozi (dati Confesercenti). L'ultimo bilancio delle aziende associate Univendita (da poco entrata in Confcommercio) è stato di 823 milioni di euro, mentre per l'anno in corso si prevede di superare il miliardo. La vendita diretta a domicilio certo è ancora un fenomeno di dimensioni modeste, conta poco più dell'1% del commercio in Italia. Ma se continua così guadagnerà sempre più spazio: "Rispetto al passato sono cambiati i venditori, si punta di più alla formazione, cercando di evitare la pressione fastidiosa sul cliente", dice Luca Pozzoli, presidente di Univendita. I venditori a domicilio che provengono dal commercio tradizionale, sostiene Pozzoli, hanno anche più chance degli altri nella possibilità di costruire un buon rapporto con i potenziali clienti: "Abbiamo ampia esperienza del fatto che una persona che arriva dal commercio il contatto con la clientela sa già come tenerlo, quindi ha maggiori possibilità di riuscita".

"Quando un commerciante fallisce non c'è nessun tipo di supporto sociale - ricorda Massimo Zanon, presidente di Confcommercio Veneto e Venezia -. Per ricollocarsi, è determinante l'età: se è uno che ha una professionalità, può ritrovare uno spazio nello stesso settore, come dipendente. Il 2/3% si lancia nel commercio ambulante, il 3/4% nella vendita diretta, attività nella quale possono essere favoriti perché hanno una buona capacità dialettica, e poi si tratta sempre di un lavoro imprenditoriale". Il commercio ambulante, che assorbe una quota piccola ma non trascurabile di ex negozianti, viaggia verso una quota di mercato dell'11%. Gli ambulanti, con i loro 170.845 esercizi, coprivano infatti alla fine del 2010  il 10,5% della complessiva distribuzione commerciale, con un aumento del 20% messo a segno tra il 2000 e il 2010. Il giro d'affari del comparto supera i 25 miliardi di euro. "Il comparto è in crescita intanto perché vi approdano molte persone, espulse dal mercato del lavoro  -  spiega Adriano Ciolli, coordinatore nazionale di Anva, l'associazione dei venditori ambulanti che fa capo a Confesercenti  -  e poi perché l'investimento di partenza che si richiede è modesto, e questo facilita l'avvio di nuove attività".

Però non tutti i commercianti che sono costretti a chiudere il loro negozio hanno la possibilità di "reinventarsi" come venditori a domicilio, o ambulanti. "Da noi il commercio ambulante ormai è prerogativa dei cinesi - dice Salvatore Politino, direttore di Confesercenti Catania - e la vendita diretta praticamente non esiste. Chi chiude un negozio, se ci riesce, cerca di essere assorbito come dipendente dalla grande distribuzione". Molti dei commercianti che chiudono, osserva Renato Mattioni, direttore della Camera di Commercio di Monza e della Brianza, finiscono per rimanere fuori da ogni prospettiva, perché già l'apertura di un negozio era stato per loro l'approdo all'ultima spiaggia: "Un terzo delle imprese nascono più per disperazione che per convinzione: si tratta di cassintegrati, precari che fanno l'ultimo tentativo per trovarsi un'occupazione, e che spesso falliscono per mancanza di adeguata preparazione. Per loro è molto difficile ricollocarsi". Lo conferma Andrea Nardini, direttore di Confcommercio Toscana: "Il terziario negli ultimi anni è stato un forte bacino di assorbimento per i lavoratori espulsi dal sistema produttivo".

Per cercare di tirare avanti, i negozianti sono comunque costretti a mettere in atto delle strategie di sopravvivenza. Per i negozi di abbigliamento, spiega Angelo Sabia, titolare di un negozi di calzature a Rivoli (Torino), la soluzione nella maggior parte dei casi si chiama outlet: "Nonostante le vendite calino, i fornitori ci costringono ad acquistare più merce e ad acquistarla sempre con maggiore anticipo. E allora, chi può apre un outlet, e lì vende le rimanenze con sconti che possono arrivare anche al 70%". Ci sono poi negozianti che decidono per non morire di allearsi con il "nemico", chiudendo il negozio di quartiere e aprendone uno in un centro commerciale. Ma è una strategia che ultimamente dà poche soddisfazioni: "Alcuni di noi, quando aprì Porta di Roma - racconta Andrea Venanzi, presidente dell'associazione commercianti di via Ojetti, una delle principali strade commerciali del quarto municipio di Roma - pensarono di poterla cogliere come opportunità, aprendo all'interno del centro commerciale un negozio di calze da donna e uno di abbigliamento bambino. Ma i costi sono spaventosi, si possono pagare fino a 8500 euro al mese d'affitto, e poi ci sono gli orari prolungati, per cui serve più personale. E con la crisi le vendite sono calate, ormai non si vende molto, neanche nei centri commerciali. Nel giro di poco tempo hanno dovuto chiudere entrambi, e hanno riaperto un negozio di quartiere".

"Qui, al centro commerciale di Mestre - racconta Doriano Calzavara, presidente Ascom-Confcommercio di Mestre - eravamo all'apertura 30 aziende familiari su 70 negozi. L'idea era di coinvolgere anche i commercianti del posto. Ma ormai hanno chiuso quasi tutti, abbiamo resistito in sette. Sono rimaste solo le grandi catene in franchising: Footlocker, Geox, Yamamay, Golden Lady... Ci hanno mangiati vivi. E' per questo che i centri commerciali sono tutti uguali. Per un negozio a gestione familiare i costi in un centro commerciale sono il 45% in più, ma i prezzi sono diminuiti dal 2008, siamo stati costretti a ridurli in media del 4% l'anno, quindi adesso il calo è tra il 16 e il 20%".

Tutte le strategie di vendita passano comunque per gli sconti. I negozianti del quarto municipio di Roma hanno deciso di offrirne uno collettivo agli abitanti del quartiere, per cercare di equilibrare il fortissimo potere di attrazione esercitato dal centro commerciale Porta di Roma, che in pochi anni ha svuotato le botteghe di vicinato. Per ottenere il 10% su qualsiasi prodotto basta mostrare la "Card Sconto più", inviata in questi giorni dalla presidenza del municipio a 110mila famiglie. La strategia dello sconto è comunque generalizzata. Le cronache di inizio dicembre parlano di saldi anticipati, i cartelli sono dappertutto. Per i negozianti è l'ultima spiaggia: perdere parte del guadagno sperando però di attirare grazie ai prezzi convenienti clienti sempre più svogliati e spaventati dalla crisi economica.

Da "REPUBBLICA"

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